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I nuovi poveri sono gli autonomi

I nuovi poveri sono gli autonomi

Senza diritti alla malattia o al sostegno al reddito, non avranno mai una pensione. Ma i loro contributi finanziano il Welfare degli altri lavoratori. I dati dell’Osservatorio XX maggio su parasubordinati e professionisti iscritti alla gestione separata dell’Inps descrivono l’esistenza della nuova povertà che avanza in Italia. Drammatica la situazione degli architetti e degli ingegneri.

L’Osservatorio dei lavori dell’associazione 20 maggio ha fatto il ritratto dei “nuovi poveri” che sono i possessori della partita Iva, presentando il mese scorso, a Roma, il terzo rapporto sui dati della gestione separata dell’Inps. Con l’entrata in vigore delle regole della delega sul lavoro, su mille euro guadagnati ad un autonomo resteranno in tasca 515 euro contro i 903 di un lavoratore dipendente. Gli iscritti a questa cassa dell’Inps hanno un compenso lordo medio di 18.640 euro, un reddito netto da 8.670 euro annui per 723 euro mensili.

Parliamo di lavoratori, ovvero artigiani, liberi professionisti e piccoli imprenditori, che non hanno diritto alle tutele universali contro la malattia e versano contributi per una pensione (oggi il 27% del reddito, il 33% entro il 2019) e che non avranno una pensione. I contributi di costoro servono oggi a coprire i debiti delle altre gestioni Inps, quella dei dirigenti ad esempio. Questi lavoratori non hanno diritto agli ammortizzatori sociali ma con i loro compensi producono un Pil pari a 24 miliardi e assicurano all’Inps un gettito di 5 miliardi e 805 milioni annui. Questi dati dimostrano che i precari finanziano il Welfare senza avere nulla in cambio. Al danno si aggiunge dunque la beffa. E i redditi restano molto bassi: 10.128 euro annui per i contratti a progetto, ad esempio i call center.

Bassi anche i compensi per i dottori di ricerca all’università (13.834 euro lordi) o per i medici specializzandi (18.746 lordi). Per i giornalisti freelance appena 9 mila all’anno. Le donne tra i 40 e i 49 anni sono le più penalizzate: guadagnano 11.689 euro in meno all’anno rispetto agli uomini.

I numeri che riguardano gli architetti e gli ingegneri che vivono di sola libera professione sono a dir poco sconcertanti: ben 40.000 di costoro hanno dichiarato, nell’ultima comunicazione dei redditi professionali, incassi inferiori a 8.000,00 euro. Ciò significa che il 27% degli ingegneri e architetti italiani vive sotto la soglia di povertà. Molti degli iscritti agli albi professionali si stanno cancellando, qualcuno si è suicidato, perché hanno perso la speranza di trovare lavoro. Molti giovani non sono in condizione di iscriversi, non avendo a disposizione i circa 5.000,00 euro annuali necessari per affrontare le spese di iscrizione all’Ordine professionale, l’Inarcassa, la partita IVA, l’assicurazione professionale e le somme necessarie a partecipare ai corsi di aggiornamento obbligatori. L’Agenzia delle Entrate già un anno fa ha rilevato che più del 97% dei professionisti è escluso dalle gare per l’affidamento dei servizi di progettazione.

La crisi ha aumentato la disoccupazione. Nell’ultimo anno sono stati persi 166.867 occupati, i collaboratori a progetto sono diminuiti di 322.101 unità dal 2007 al 2013, e nel solo 2012 sono passati da 647.691 a 502.834, con una flessione di ben 145 mila unità. La così detta “riforma Fornero” ha contribuito a tale disastro, in quanto ha imposto l’introduzione dei minimi tabellari dei dipendenti. Questo ha prodotto un esodo verso il lavoro nero, le «false partite Iva» o la disoccupazione.

Con il governo Renzi le cose non sono cambiate per i parasubordinati iscritti alla gestione separata. Lo sgravio previsto dalla legge di stabilità per le assunzioni a tempo indeterminato (con un massimale fissato a 6200 euro) non renderà «più competitivi» questi contratti rispetto ai lavori dove i compensi minimi non sono regolati da accordi collettivi. Per le imprese a basso contenuto di manodopera specializzata sarà sempre più conveniente assumere un precario per poi non rinnovargli il contratto. Il problema non verrà risolto nemmeno dal salario minimo ipotizzato nella Delega perché non può essere applicato nella pluralità dei settori del lavoro parasubordinato e tanto meno in quello autonomo a partita Iva.

C’è anzi il rischio che, con il perdurare della crisi e con la confusione del governo dettata da una scarsa conoscenza delle forme del lavoro, il salario minimo diventi il massimo che le aziende pagano. La strada potrebbe essere quella di stabilire un equo compenso per le partite Iva individuali per evitare che il Jobs Act le spinga verso il lavoro nero o l’inoccupazione. Per l’Associazione 20 maggio la soluzione sarebbe quella di ricondurre gli «atipici» nella contrattazione collettiva, un’opzione fin’ora trascurata dai sindacati.

Resta da capire la situazione di coloro che non possono, o non vogliono, diventare dipendenti. Verranno lasciati al loro destino di esuli involontari, oppure si possono immaginare forme di tutele universali o un reddito di base?

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